dicembre 12, 2012

La questione sionista e il Vicino Oriente. – Documentazione tratta da “l’Unità”: Cronache dell’anno 2001.

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L’archivio storico dell’Unità è composto dalle scansioni delle copie cartacee originali stampate dal 1924 al 2008. Le edizioni pubblicate dal 2008 in poi, già in formato digitale, sono pure gratuitamente e integralmente disponibili, a titolo gratuito la settimana successiva alla data di pubblicazione. È l’archivio completo di tutte le pagine del giornale, dalla fondazione al 2008, integralmente e gratuitamente a disposizione di tutti. Un'impresa di straordinario contenuto tecnologico che permette di accedere ai fatti di oltre 80 anni di storia attraverso ricerche per parole, date, classificazioni, suggerimenti. L’archivio storico comprende il periodo che va dalla data di fondazione del 12 febbraio 1924 fino al 2008; si tratta di oltre 500 mila pagine di giornale provenienti dalle scansioni delle copie cartacee originali e fruibili tramite il motore di ricerca. Siffatti articolo sono integrati nella nostra ricerca sulla «Questione sionista e il Vicino Oriente». Costituiscono una fonte prezioso per lo studio del rapporto fra il sionismo e la sinistra italiana nonché per il rapporti fra antifascismo e sionismo.

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Sommario: Anno 2001 de “l’Unità” → 1. Il processo a Israele spacca Durban. – 2. Wiesel: si tace sull’antisemismo, si istiga all’odio. –
Indice Analitico: a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z. - Eventi del 2001.
Cap. 1

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Il processo a Israele spacca Durban

l’Unità,
3 settembre2001
Lunedì, p. 9

Titoli: Scontro sul documento finale. Annan cerca il compromesso. Ma rischia di fallire il summit mondiale dell’Onu contro il razzismo. Il processo a Israele spacca Durban. Le Ong accusano: Stato fondato sull’apartheid. Peres e Bush pronti a ritirare le adesioni.

WASHINGTON. La conferenza di Durban contro il razzismo rischia di annegare in un diluvio di critiche contro Israele. Mary Robinson, commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani e segretaria generale della conferenza, ha dato l’allarme. Migliaia di organizzazioni non governative hanno assunto una posizione di rottura. Hanno votato un documento in cui lo stato ebraico viene accusato di «razzismo, crimini di guerra sistematici e genocidio», e chiedono di includerlo nella dichiarazione finale che dovrebbe essere votata venerdì dai rappresentanti di 153 governi.


«Questa posizione – ha spiegato Mary Robinson – è stata presa dalle organizzazioni non governative con una votazione democratica, anche se io personalmente avevo chiesto di evitarla. Ma anch’io ho il diritto democratico di dissociarmi e respingere le accuse a Israele. Non credo che questo testo possa essere adottato dalla conferenza contro il razzismo». In teoria, la conferenza convocata a Durban dal segretario generale dell’Onu Kofi Annan avrebbe dovuto gettare le basi per una campagna mondiale contro il razzismo, e affrontare problemi come la segregazione tra bianchi e neri o le discriminazioni contro gli immigrati. In pratica, si è trasformata in una rissa. I palestinesi vorrebbero trasformarla in un processo a Israele, nonostante le minacce di boicottaggio di paesi forti come gli Stati Uniti e il Canada, e le rimostranze dei vertici dell’onu. I neri americani rivendicano un risarcimento per la schiavitù, e in questo modo rischiano di deragliare la richiesta di un fondo di sviluppo per l’Africa. Alcuni paesi occidentali sono disposti a trattare con gli africani, ma la decisione dei neri americani di
portare portare la loro causa in tribunale potrebbe far saltare gli accordi.

Alla conferenza sono accreditate ben 3744 organizzazioni non governative, che hanno una tribuna separata da quella dei governi. Le loro risoluzioni non sono vincolanti. Il documento approvato domenica mattina definisce Israele «uno stato razzista fondato sull’apartheid». Il governo israeliano viene accusato di «perpetrare sistematicamente crimini razzisti, compresi crimini di guerra, atti di genocidio e pulizia etnica». Alla conferenza viene raccomandato di ripristinare un capoverso, cancellato dalla bozza di dichiarazione finale, in cui si affermava che il sionismo è una forma di razzismo. All’Onu si chiede di svolgere una istruttoria speciale sui crimini di guerra israeliani e di isolare lo stato ebraico come è stato fatto per il Sudafrica ai tempi dell’apartheid. Per protesta, le organizzazioni ebraiche e quelle cristiane hanno abbandonato l’assemblea prima della votazione.

Reed Brody, direttore di Human Rights Watch, una organizzazione umanitaria internazionale, ha ammonito che le esagerazioni non servono alla causa palestinese. «Israele – ha detto – ha commesso gravi crimini contro il popolo della Palestina, ma la parola genocidio è del tutto fuori luogo, ed è un errore assimilare il sionismo al razzismo». Shawqi Issa, portavoce delle delegazioni arabe, non nasconde però la propria soddisfazione. «Il governo israeliano – ha sostenuto – è razzista e pratica l’apartheid. Questi sono fatti e noi possiamo provarli. Le organizzazioni non governative non hanno le preoccupazioni di opportunità dei governi. Sono qui per proteggere le vittime del razzismo».

La conferenza finirà venerdì, e le delegazioni inviate dagli Stati Uniti e dal Canada non hanno ancora occupato i loro posti in sala. Sono presenti, per ragioni di protocollo, soltanto gli ambasciatori accreditati in Sudafrica, che però non partecipano al dibattito. Nei prossimi giorni si capirà se sarà possibile ricostituire una unità di facciata. A Gerusalemme, il ministro degli esteri israeliano Shimon Peres ha espresso la frustrazione del suo governo. «La dichiarazione di Durban – ha protestato – è una esplosione di odio, di antisemitismo e antisionismo». A Gaza Raji Sourani, direttore del centro palestinese per i diritti umani, soffia sul fuoco della protesta. «La conferenza – ha commentato – è un grande successo. Ha finalmente rotto il silenzio e la cospirazione dei governi». In un primo tempo il presidente dell’autorità palestinese Yasser Arafat aveva segnalato di essere disponibile a un compromesso. Ma i militanti lo tengono sotto pressione e i delegati dei paesi occidentali non hanno niente da offrirgli per incoraggiarlo alla moderazione.

Bruno Marolo
Cap. 2

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Wiesel: si tace sull’antisemitismo, si istiga all’odio

l’Unità,
3 settembre2001
Lunedì, p. 9

«Ciò che più mi ha indignato, costringendomi alle dimissioni dal “Comitato delle personalità” istituito dalla signora Robinson in preparazione della Conferenza di Durban, era un’ “assenza” e un “plurale” di troppo che caratterizzavano il documento preparatorio: il plurale riguardava gli olocausti, l’assenza in questione nvestiva l’antisemitismo». Inizia così il nostro colloquio con lo scrittore e premio Nobel per la pace Elie Wiesel. Quell’assenza e quel plurale sono una ferita aperta nella coscienza e nella memoria di Wiesel, sopravvissuto, unico della sua famiglia, ai lager nazisti, che alla memoria di quella tragedia «che non ha raffronti nella storia dell’umanità», ha dedicato la sua vita di scrittore. Scrive Elie Wiesel nelle sue Memorie: «Ricordarsi, che cosa vuol dire? Far rivivere un passato, illuminare volti e avvenimenti di una luce bianca e nera, dire no alla sabbia che ricopre le parole, dire no all’oblìo, alla morte». Dire no all’oblìo può anche voler dire disertare una Conferenza “priva di memoria”».

Al centro della Conferenza Onu di Durban si è imposta la condanna della politica di Israele nei riguardi dei palestinesi.

«Vede, in questo momento dovrei essere a Durban. Ero stato invitato quale membro del “Comitato delle personalità eminenti” dalla signora Robinson (l’Alto commissario Onu per i diritti umani, ndr.). Ma nella fase di preparazione dei documenti per la conferenza, ho dato le dimissioni. Questi documenti, non solo ponevano razzismo e sionismo sullo stesso piano ma ignoravano il tema dell’antisemitismo che rappresenta il pregiudizio più antico della storia. Questo è un grave errore che ovviamente non potevo avallare e che ha determinato la mia scelta, una scelta obbligata. In particolare, e spero che la frase sia stata cancellata dai testi, veniva affermato che bisogna parlare degli olocausti (al plurale) come quello della pulizia etnica compiuta da Israele nei confronti dei palestinesi. Ne ho discusso sia con Kofi Annan, che è un amico, sia con la signora Robinson e purtroppo devo contraddire Annan. Nessuno ha il diritto di servirsi dell’Olocausto. Per quanto riguarda poi l’assenza di qualsiasi riferimento all’antisemitismo, trovo questo tanto più grave nel momento in cui in molte realtà l’Ebreo è tornato ad essere il simbolo di una diversità (etnico-religiosa) negata e contrastata con la violenza degli atti o delle parole. In quanto allo Stato di Israele, si serve solo di elementi volti a garantirne la sicurezza in una situazione in cui, è necessario ribadirlo, il terrorismo non è rivolto a obiettivi militari bensì principalmente a obiettivi civili. Personalmente, mi sono sempre battuto per i bambini. E’ sconvolgente vedere come là si usino i giovani per provocare la morte. Io non sono un uomo di Stato né un militare ma posso affermare che se Israele, nel rispondere alla situazione, colpisce i bambini, questo non avviene certamente in virtù di un piano
preordinato. È sconvolgente che possano morire dei bambini palestinesi ma che può fare Israele in questa situazione? Personalmente, mi schiero sempre contro la violenza e il terrorismo».

Le sue parole esprimono una forte delusione per il discorso pronunciato da Kofi Annan.

«La mia amicizia con Kofi Annan non è in discussione ma il segretario generale delle NazioniUnite doveva tener conto che ad ascoltarlo vi era una platea che, in una sua parte non marginale, aveva chiaramente lasciato intendere di voler trasformare la Conferenza sul razzismo in un processo a Israele e agli Usa. Non ho dubbi sulla buona fede di Annan ma le sue parole hanno oggettivamente rafforzato quel disegno».

La Conferenza ha discusso e si è divisa negli interventi sulla legittimità di equiparare il sionismo al razzismo. E nel documento finale approvato da tremila Organizzazione non governative si fa esplicito riferimento a Israele come ad uno Stato razzista.

«Associare sionismo e razzismo costituisce semplicemente un’offesa all’intelligenza, alla decenza, all’onestà intellettuale. Israele non è affatto uno Stato razzista né potrebbe esserlo e questo non solo perché gli ebrei sono stati le vittime ma perché è la stessa religione ebraica che non è razzista. Infatti, chiunque può diventare ebreo accettando la legge di Mosé. Certo, i problemi politici sono gravi e dolorosi ed è sconvolgente vedere quello che sta succedendo. Ma non aiuta certo la ricerca di una soluzione pacifica del conflitto demonizzare Israele e infangare la sua storia e la sua identità».

Di certo a influenzare il dibattito della Conferenza di Durban sono state le drammatiche vicende che da oltre 11 mesi segnano la terra di Palestina. Non ritiene che la politica di chiusura adottata dal premier israeliano Ariel Sharon abbia alimentato la rabbia e il desiderio di vendetta in campo palestinese?

«Non sono un esperto di politica israeliana. Posso solo dire che il terrorismo è iniziato molto prima di
Sharon. Personalmente, vorrei che la politica israeliana fosse una politica di pace. Il predecessore di Sharon, Ehud Barak, ha fatto a Camp David delle concessioni senza precedenti ma Arafat ha scelto la violenza. Inoltre basta ricordare quando è nata Al Fatah. Prima del ’67, prima degli insediamenti, prima della guerra dei Sei giorni e della presenza israeliana nei Territori».

C’è chi teme che il conflitto israelo-palestinese possa sfociare in una nuova guerra totale in Medio Oriente.

«Credo che ciò non accadrà e non perché sia ottimista sulla lungimiranza dei politici. Semplicemente
perché Israele può vincere qualsiasi guerra in virtù del suo superiore potenziale bellico. Il rischio che invece intravvedo è uno stillicidio senza fine di attentati terroristici e di conseguenti dure reazioni di Israele. Comprendo appieno la rabbia e la frustrazione dei palestinesi, ma non accetto, non posso accettare il terrorismo, che è solo disperazione e morte. Così come ritengo irresponsabile, innanzitutto
verso il suo popolo, l’atteggiamento di un leader come Arafat che si è illuso che cavalcando la rabbia e soffiando sul fuoco della violenza potesse ottenere di più di quanto avrebbe potuto ottenere al tavolo del negoziato».

ProfessorWiesel, in ultimo ritornerei a Durban. L’inizio è stato certamente caratterizzato da divisioni e polemiche. Ma il finale potrebbe recuperare uno spirito unitario, positivo che rilanci una comune battaglia contro la piaga del razzismo?

«Me lo auguro sinceramente ma con altrettanta sincerità confesso il mio scetticismo. La Conferenza di Durban mi mette in difficoltà. Dovrebbe trattarsi di un forum contro l’odio ma invece istiga l’odio. È fondamentale invece denunciare l’odio, ovunque, con ogni mezzo».

Si è parlato di un passato che divide, di un presente segnato da odio e violenze, di un futuro denso di inquietanti incognite. In tutto ciò ha ancora un posto la parola speranza?


«Lo deve avere. Chi arriva alla mia età attraversando avvenimenti sconvolgenti ha l’obbligo morale di trarre bilanci severi e sereni della propria esistenza. Ebbene, proprio perché ho vissuto quella tragedia dico che bisogna scommettere sul futuro. Per risponderle, non trovo di meglio che ritornare alle parole con cui ho chiuso i miei libri di Memorie: per salvare la vita di un solo bambino, nessun sforzo è superfluo. Far sorridere un vecchio stanco, stanco di camminare e di soffrire, vuol dire assolvere un compito essenziale. Combattere l’ingiustizia e l’infelicità, anche per un solo istante, per una sola vittima, vuol dire inventare una ragione di speranza».

Umberto De Giovannangeli




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